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Don Oreste Benzi 50 anni fa inaugurava la prima casa famiglia, il primo accolto vive ancora nella struttura

Oggi le case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII sono in totale 247, di cui 209 in Italia. Fra quelle all'estero 6 sono in Bolivia, 4 in Russia

Sabato 1 luglio, alle ore 16,30, nella parrocchia della Grotta Rossa, che fu di Don Benzi, la Comunità Papa Giovanni XXIII ricorderà i 50 anni della prima casa famiglia durante la celebrazione dell'Eucarestia, guidata dal vescovo di Cesena-Sarsina Douglas Regattieri e dal vescovo di San Marino-Montefeltro Andrea Turazzi.

Nell'estate del 1972 un panettiere si avvicinò al giovane sacerdote riminese con l'invito: "Vieni, ti porto a vedere come muore un cristiano". Don Benzi si ritrovò a visitare il tugurio semi-abbandonato dove Mariano, nella sua estrema fragilità, viveva in condizioni gravemente disumane (La storia è raccontata fra gli altri nel libro Don Oreste Benzi, amare sempre). Aveva scontato la pena di un anno e mezzo di carcere per aver rubato una bicicletta.

"Don Oreste convocò — ricorda l'allora volontaria Mirella Rossi che oggi ha 67 anni — le persone che facevano parte della sua giovane associazione; propose di avviare una sorta di "pronto soccorso sociale", per dare una famiglia agli ultimi. Ci disse che avremmo dovuto iniziare ad amare i poveri proprio allo stesso modo in cui lo aveva fatto Gesù".

Una giovane, Ida Branducci, accettò per prima la sua proposta. Il 3 luglio del 1973 andò a vivere a Coriano, nella casa che era appena stata messa a disposizione dalla "Fondazione Madonna della Scala”. Vide così la luce quel giorno la prima di quelle realtà di accoglienza di tipo familiare che sono conosciute oggi come "case famiglia". Anticipò la chiusura dei manicomi che sarebbe arrivata poi con la legge Basaglia 180 del '78. Presto si affiancò a lei Don Nevio Faitanini.

La seconda casa famiglia venne inaugurata dopo solo un mese e mezzo, il 15 agosto del 1973, nella parrocchia della Grotta Rossa di Rimini. L’11 novembre nacque la terza casa famiglia, a Santarcangelo di Romagna.

Mirella Rossi, allora diciannovenne, si trasferì a vivere nella casa famiglia di Coriano tre anni dopo l'inaugurazione, e vi è rimasta fino al 2017: "Negli anni '70 i malati psichiatrici venivano tenuti distanti da tutti; l'accoglienza come la intendiamo oggi proprio non esisteva. Fa mille difficoltà mi ritrovai a cercare di amare le persone accolte così come erano. È stata l'avventura più bella che mi sia mai capitata nella vita. Don Oreste era per me come un papà, con lui avevo un rapporto molto schietto".

L'intuizione delle case famiglia varcò i confini del territorio riminese giungendo prima a Bologna e poi in Piemonte, in Veneto, in Lombardia, per venire poi assimilata da altre realtà sociali e raggiungendo progressivamente tutto il territorio nazionale. Nel maggio 1986 venne inaugurata dallo stesso Don Benzi la “Holy family home for children” di Ndola, in Zambia, prima casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII all'estero.

Oggi le case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII sono in totale 247, di cui 209 in Italia. Fra quelle all'estero 6 sono in Bolivia, 4 in Russia.

Mara Rossi, che poi sarebbe diventata referente per l'associazione presso il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu a Ginevra, ha vissuto nella casa di Coriano durante gli anni dell'università: "La prima casa famiglia era inserita pienamente nel territorio; ricordo che tenevo un doposcuola per i bambini del circondario. Iniziarono ad arrivare a Coriano i primi obiettori di coscienza al servizio militare: Don Benzi chiedeva a tutti loro di vivere almeno un mese lì. Proponeva a donne e a uomini di vivere insieme nella condivisione di vita con gli ultimi, di andare oltre agli istituti, di dare una famiglia a chi non ce l'aveva. Erano aspetti rivoluzionari per la mentalità di quel tempo".

Dal 2018 ad oggi la casa di Coriano è una Comunità Educante con i Carcerati ed accoglie una ventina di persone, inserite nei programmi di recupero alternativi alla detenzione. Realizza l'intenzione di Don Benzi: "L'uomo non è il suo errore: dobbiamo passare dalla certezza della pena alla certezza del recupero, perché un uomo recuperato non è più pericoloso". Marino vive qui ancora ed è accudito da persone che nella condivisione con lui cercano un rimedio ai propri errori.

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