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Cronaca

Corpus Domini, il vescovo Lambiasi: "Ammalati di egocentrismo, vivere in comunione ci salverà"

Il discorso del Vescovo alla città, l'invito a non vivere da narcisi che si nascondono dietro muri e steccati egoistici

Giovedì si è festeggiata la tradizionale solennità del Corpus Domini presieduta dal Vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi. Alle ore 20.30 il Vescovo ha presieduto la S. Messa in Basilica Cattedrale.
Al termine della celebrazione, dopo una breve processione dall’altare al sagrato, ha benedetto i presenti e la città con il Santissimo Sacramento. Il Corpus Domini lega insieme due luoghi tipici della comunità: la Cattedrale – luogo del Vescovo e della chiesa locale – e la piazza, ritrovo della società civile e dell’amministrazione. L’omelia di questa solennità si compone di due parti, entrambe legate alla eucaristia, anche se con sfaccettature differenti. La prima è relativa alla eucaristia mistero di comunione: una comunione trinitaria, ma anche comunione con Cristo e con i fratelli.

Pertanto la comunione eucaristica ha un carattere “tutt’altro che intimistico e smielato”. Fare comunione con il Signore crocifisso e risorto significa donarsi con lui al Padre e ai fratelli. Unendoci a sé, Gesù Cristo unisce gli uomini tra loro. Il segno del pane e del vino, condivisi in un convito fraterno, è una bella, efficace, precisa espressione di questa unione. La comunione eucaristica è anche sacramentale e sacrificale. La parola sacrificio non inganni: non evoca una divinità sadica, ma indica Dio Padre che si sacri-fica per l’uomo, da’ la propria vita nel Figlio per salvare la nostra.

Nella seconda parte, il Vescovo Francesco è partito dalla constatazione che tutti siamo ammalati di ego-pandemia. Che è quel vivere ossessivamente centrati su di sé, quel ripiegarsi morboso sul proprio impenetrabile io. Fare la comunione significa partecipare al mistero di un Pane spezzato, perché anche “noi possiamo ‘farci pane’ e ‘farci in pezzi’ per il bene degli altri. È uscire dal ripiegamento morboso e compiaciuto. È abbattere i muri dell’indifferenza e della contrapposizione. È bruciare le scorie tossiche dei continui paragoni e delle conseguenti amarezze e divisioni, per fare uno in quel Cristo Gesù che si è lasciato uccidere” perché ogni uomo avesse la vita, e l’avesse in abbondanza.

Eucaristia, festa della comunione
L'omelia del Vescovo per la solennità del Corpo e del Sangue di Cristo

È l’ora della ‘diretta’ dal cenacolo: Gesù è a cena con i Dodici, i suoi amici più cari. Ma Giuda, sta andando a tradirlo. Pietro sta per rinnegarlo. Gli altri, quasi tutti, tra poco fuggiranno. Eppure, proprio quando tutto sembra perduto, Gesù prende il pane, lo spezza e lo dà loro dicendo: “Questo è il mio corpo”. Quando l’unico futuro sembra ormai la croce, Gesù compie quel gesto folle, ma pieno d’amore. Questa è la roccia granitica della nostra speranza. Ogni volta che ci riuniamo per l’eucaristia, noi ci ‘colleghiamo in diretta’ a quel momento e a quell’inatteso dono di futuro. L’ultima Cena non è l’anticipazione di una mesta liturgia funebre, ma l’inaugurazione di una festa intima e intensa. Non la fine, ma un inizio senza fine: la prima eucaristia.

L’eucaristia è un mistero di comunione. Gesù aveva chiamato a sé i Dodici perché “stessero con lui” (Mc 3,14). Aveva mangiato con loro. E – scandalo stomachevole! – a lui piaceva sedere a mensa con pubblicani, peccatori e meretrici. Nella mentalità del tempo ogni pasto consumato insieme, anche il più semplice, era un gesto profondamente umano, un rito costruttore di comunione. Quando il padre di famiglia benediceva il pane, lo spezzava, lo distribuiva, si celebrava una comunione: in virtù di quel pane condiviso e carico di benedizione, i commensali si trovavano legati in una comunione di vita, con Dio e tra di loro. A questo simbolismo si ispira san Paolo: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo” (1Cor 10,16).

Ecco l’eucaristia: un mistero di comunione. Una comunione trinitaria. All’eucaristia è destinata l’opera del Padre, il quale fin da principio vuole l’alleanza con tutta l’umanità: che si realizzi finalmente il regno di Dio! All’eucaristia è finalizzata l’opera del Figlio, il quale vuole essere con noi per sempre, tutti i giorni. Anche nei giorni del buio e della nebbia, anche nelle ore del dolore e del tormento, anche nell’ora nona: l’ora della nostra morte. All’eucaristia è orientata l’opera dello Spirito Santo. Nell’invocazione dopo la consacrazione preghiamo che “per la comunione al corpo di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”. Il fine della storia è che tutto il genere umano si componga nell’amore, a cominciare dalla Chiesa che è il sacramento - ineludibile premessa e irrefragabile promessa - dell’unità di tutti i figli di Dio che sono dispersi.

L’Eucaristia è un mistero di comunione con Cristo e con i fratelli. Pertanto la comunione eucaristica ha un carattere tutt’altro che intimistico e smielato. Fare comunione con il Signore crocifisso e risorto significa donarsi con lui al Padre e ai fratelli. Nella terza preghiera eucaristica preghiamo: “A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo Spirito”. Il Signore Gesù viene a vivere in noi e ci assimila a sé: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,55). Unendoci a sé, Gesù Cristo ci unisce anche tra di noi. Lo esprime bene il segno del pane e del vino, condivisi in un convito fraterno. I molti diventano un solo corpo in virtù dell’unico pane, dell’unico calice. Come i chicchi di grano si fondono in un solo pane e gli acini di uva in un solo vino, così noi diventiamo uno in Cristo (Didaché, 9,4).

Ancora: la comunione eucaristica è una comunione sacramentale. È come se Cristo facesse ad ogni comunicante una sorprendente dichiarazione d’amore: “Io mi consegno alle tue mani come dono. Mi lascio mangiare dalla tua bocca come pane. Voglio entrare nel tuo cuore come sangue di vita nuova”. Inoltre, mentre è il modo pieno di partecipare al banchetto della nuova alleanza, l’eucaristia è anche la totale, irreversibile incorporazione nel corpo mistico di Cristo, nel quale vige la piena comunione di vita tra tutte le membra. E’ come se ogni comunicante potesse dire al fratello: “Che cosa ci potrà separare se viviamo tutti del pane spezzato che il Padre ci offre, donandoci il suo Cristo?”. Per questa strada la comunione eucaristica si riscatta da una visione privatistica e puramente devozionale, che tende a separare il Capo divino dalle membra umane.

Inoltre: la comunione eucaristica è una comunione sacrificale. “Prendete, bevete: questo è il mio sangue”. La santa eucaristia è insieme convito e sacrificio. È memoria del sacrificio della croce. E presenza attuale di quel sacrificio. Certo, sacrificio è parola da brivido. Ma, niente paura! L’accezione evangelica e cristiana di questa parola non evoca una divinità sadica e spietata che rivendichi una paternità vendicativa, assetata di sangue per placarsi da una ira accanita, scatenata dal peccato dell’umanità. È Dio Padre che si sacri-fica per noi, sacri-ficando il proprio Figlio. Non nel senso di godere del suo dolore – per carità! – ma nel senso di dar modo al suo Amato di esprimere per noi l’amore più grande: quello di dare la propria vita per salvare la nostra.

Fare la comunione. Di fronte al pane del cielo ci ritroviamo tutti affamati di vita e di felicità. Tutti ammalati di ego-pandemia. Che è quel vivere ossessivamente centrati su di sé, quel ripiegarsi morboso sul proprio impenetrabile io. Tutto questo ha un nome solo: narcisismo. Di fronte all’eucaristia ci ritroviamo tutti gli uni contro gli altri armati, in una conflittualità esasperata, sempre in corsa affannosa per arrivare prima degli altri. Quando ci sediamo alla cena del Signore, siamo dei poveri affamati di felicità, ammalati di egoismo, armati di violenza.

Al nostro bisogno di amare e di essere amati, Dio si offre tutto intero. Nell’eucaristia c’è tutto. Tutto Dio, con la sua offerta di salvezza. Tutto Cristo, con la sua irrefrenabile voglia di sedere a mensa con i peccatori. Tutto il suo amore – la dedizione della croce e l’energia della risurrezione - principio di unità del mondo: superamento di ogni egoismo, abbattimento di ogni barriera. Fare la comunione non è una pia, consolante o esaltante devozione. È rinunciare alle false sicurezze dell’avere. Ai miraggi luccicanti dell’apparire. Alle voglie malsane di esistere sopra gli altri, senza gli altri, contro gli altri. Per scegliere invece la strada crocifiggente e beatificante del dare la vita, perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Fare la comunione significa partecipare al mistero di un Pane spezzato, perché anche noi possiamo ‘farci pane’ e ‘farci in pezzi’ per il bene degli altri. È uscire dal ripiegamento morboso e compiaciuto. È abbattere i muri dell’indifferenza e della contrapposizione. È bruciare le scorie tossiche dei continui paragoni e delle conseguenti amarezze e divisioni, per fare uno in quel Cristo Gesù che si è lasciato ammazzare “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).

Fare la comunione è davvero tutto per noi. È il nostro tesoro più caro. Il bene più grande della Chiesa. Il più bel libro di teologia. Il centro di tutta la vita cristiana. Gesù aveva detto: “Chi mangia di me, vivrà per me”. Vivere per lui, come lui, è lasciarci spezzare e distribuire per tutti. È sentirci amati. E amare: generosamente, tenacemente, teneramente. Cioè vivere.

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