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Cronaca

Presentata la mostra "Disciplina della carne" di Mattia Moreni e Nicola Samorì

L'assessore Massimo Pulini: "costituisce a mio avviso uno degli eventi espositivi tra i più importanti in Italia, se non il più importante, dedicati all’arte contemporanea"

E’ stata presentata giovedì mattina, negli spazi espositivi della FAR FAR Fabbrica Arte Rimini di piazza Cavour la mostra Mattia Moreni – Nicola Samorì / Disciplina della carne. “Una mostra che – ha detto l’assessore alla Cultura Massimo Pulini nell’anteprima per la stampa a cui hanno partecipato anche l’autore Nicola Samorì, l’assessore alla Cultura del Comune di Cotignola Federico Settembrini e il curatore Massimiliano Fabbri – costituisce a mio avviso uno degli eventi espositivi tra i più importanti in Italia, se non il più importante, dedicati all’arte contemporanea per essere capace di documentare due genialità del nostro territorio come Mattia Moreni, qui rappresentato da opere del suo primo percorso artistico, e Nicola Samorì, con le sue opere più recenti.”

La mostra Disciplina della carne mette infatti in scena un corpo a corpo tra due autori che della fascinazione e ossessione per la materia hanno fatto, non solo un centro e snodo vitale della loro ricerca, ma anche un punto di partenza e approdo per una continua riflessione sulle possibilità e limiti della pittura stessa, così come, parallelamente, sulla irrinunciabile drammaticità della rappresentazione e sul rapporto amoroso e conflittuale con le immagini.

Un dialogo che mette in luce affinità e divergenze, contrasti nettissimi e sintonie profonde tra due artisti che, pur non essendosi mai incontrati, ci sono sembrati in molti modi e molteplici forme destinati a intrecciare per un momento i loro percorsi, a partire anche dalla tesi di Nicola Samorì su Mattia Moreni discussa all'Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2003, antefatto che può essere considerato come il primo riconoscimento di somiglianza e tentativo di avvicinamento da parte dell'artista più giovane.

Il progetto, che finisce perciò per lambire anche la problematica e imprendibile relazione con il concetto di maestro (che Samorì trova nell'ingombrante figura di Moreni), si rivela in realtà, al di là di queste piste più o meno sotterranee o latenti, un complesso gioco di specchi e rimandi che permette di guardare a Mattia Moreni non tanto come a un profeta capace di anticipare correnti pittoriche e direzioni a venire, quanto a un artista estremamente sensibile, affamato e rapace, i cui dipinti non sembrano affatto scalfiti, segnati o invecchiati dalla patina del tempo trascorso. Che questi quadri sono immagini ancora brucianti e violente, una temperatura che ne denuncia e rivela la grande vitalità, energia e forza; ferita tuttora pulsante che offre a noi il fianco per costruire un percorso tutto al presente, in cui si affiancano e guardano due importanti artisti italiani che, nella sperimentazione e nella costante messa in discussione dello stile, senza per questo perdere in riconoscibilità, trovano uno dei principali punti di convergenza e al tempo stesso distanza, tanto che possiamo parlare di una ricerca che per entrambi, non solo si muove per cicli e periodi, ma che progredisce e muta per via di impercettibili spostamenti interni, intuizioni e casuali scoperte, slittamenti, terremoti e clamorose fratture infine. Scarti repentini incomprensibili se non alla luce di una capacità, nei due, di ascolto di quel che di più vitale preme e si affaccia nel panorama dell'arte. E, in questa sintesi di correnti e direzioni e forze contrastanti, di nervi all'erta e frementi, il furto diventa un luogo della sintonia, nella voracità e capacità di entrambi di tenere quel che si è visto e serve, dandogli spazio, e fagocitando tutto questo all'interno di nuove e altre geografie e pratiche pittoriche che dischiudono spazi, movimenti e traiettorie inesplorate in cui addentrarsi e ritrovarsi.

Tra le ragioni della mostra è opportuno così tenere conto, ancora, di questa duplicità messa in atto dal progetto, una duplicità di sguardo prima di tutto, quello dei due autori, ma anche, in seconda battuta, una duplicità di luoghi, luoghi che hanno pensato e coltivato la mostra: Cotignola e Rimini, insieme, a creare un percorso espositivo che si ramifica e sdoppia in due sedi e sezioni distinte, decisamente differenti tra loro, eppure capaci di restituire e chiudersi in un'unicità che tiene conto più compiutamente della complessità dei due artisti, della stratificazione di materie e significati e storie e interpretazioni.

Museo Varoli e FAR Fabbrica Arti Rimini che in questa occasione si congiungono e completano a tracciare una possibile mappa sulla pittura oggi e su due autori, infine, non poi così distanti. E che, in questa carne e pasta pittorica sensuale, e nella disciplina del gesto e tecnica che prova ad addomesticare la belva, trovano più di un punto di contatto e sintesi, di convergenza intellettuale prima ancora che epidermica.

Mattia Moreni si è fermato, dopo vari spostamenti, in Romagna: un suo primo approdo in questi panorami lo vede proprio a Cotignola nel 1939, rifugiato in seguito al suo impegno politico, in un breve passaggio anche dall'artista Luigi Varoli (di questo rapporto di amicizia restano un paio di testimonianze nella casa del maestro cotignolese: una cartolina spedita da Moreni nel 1958 da Bruxelles e il pieghevole della sua mostra a Parigi del 1957). Poi, a partire dalla seconda metà degli anni '50, Moreni, com'è risaputo, tiene il suo studio, per quasi un decennio, nelle estati di Palazzo San Giacomo a Russi; in seguito verranno le Calbane Vecchie a Brisighella e Santa Sofia.

Non che qui lo si voglia sospingere ulteriormente in Romagna come si è forse involontariamente tentato a volte, ma incontestabile il fatto che questo paesaggio sia diventato per Moreni luogo d'adozione, testimoniato anche da alcune importanti e preziose collezioni private presenti sul territorio, indispensabili al prendere forma di questo progetto.

Da questa geografia si muove la mostra, mettendo in rete due città che hanno rappresentato, in questi ultimi anni, due importanti centri di riferimento per il contemporaneo e le arti visive in Romagna: su tutte la Biennale del Disegno di Rimini e il progetto Selvatico, nato a Cotignola, cortocircuito tra collezioni museali, spazi non convenzionali e arte contemporanea che ha nelle sue corde e modalità operative, anche il coinvolgimento degli artisti attraverso uno sconfinamento di ambiti che comporta pluralità di sguardi e tentativi di congiunzione tra cose, luoghi e persone.

E questa mostra esiste perché da subito affianca a Mattia Moreni, quasi una sfida, un artista vivente, Nicola Samorì, tra i migliori pittori italiani del presente, coinvolgendolo non solo in quanto artista, ma anche come una sorta di co-curatore e compagno di strada con cui si sono qui condivisi studi, scoperte, appassionate ricerche e snodi progettuali ed espositivi con il chiaro intento di restituire un Moreni, se non inedito, sicuramente meno visto e conosciuto; che la scelta delle opere in mostra è qui frutto di una selezione decisamente partigiana e arbitraria, di modi di vedere che, man mano che si sono affinati e addentrati nel trasgressivo labirinto moreniano, hanno finito per tralasciare alcune cose a favore di altri periodi, fasi e singole soluzioni che invece si prestavano meglio alla narrazione che si andava tessendo e alla ricerca di incastri, risonanze ed echi con i fantasmi e le combustioni di Samorì. Ecco allora l'epicità tragica delle angurie, i pallori lunari e la mollezza opalina delle carni insieme al duro e polveroso bianco di ossa e marmi di Samorì, o le lumeggiature impazzite e taglienti come lame e rotaie, le incisioni, slabbrature e ferite, la lascivia decadenza invertebrata dei corpi molluschi come spiaggiati, insieme ai resti accartocciati e schiacciati dalla gravità appartenenti all'altro artista; cera che scioglie e cola in un gialloverde malaticcio, cascami materici e luci livide violette, la pelle liscia levigata pallida e la dissoluzione e scorticazione inferta a questa candida superficie lattiginosa d'alabastro; o ancora la costruzione segnica, furiosa, gestuale e ortogonale delle baracche e legni e cartelli, insieme a teatri effimeri in cui si compongono precari frammenti, fragili architetture da niente fatte di reperti sparsi, rifiuti e accumuli, i notturni e le apparizioni potenti come incubi provenienti dal futuro, la battaglia e incendio dei bianchi e neri che convive sapientemente e con certa sorpresa con inattesi e struggenti passaggi tonali, e i grigi fangosi che dilagano a riprendersi il quadro, stringendo e coprendo sordamente l'immagine, seppellendola in ripensamenti e sconfitte pompeiane; e poi i marroni e i rosa, la carne, fino al volto come mappa e campo di battaglia...

Un Moreni guardato inevitabilmente con occhi contemporanei, non da storici dell'arte, ma da altri artisti, e qui risiede probabilmente la particolarità del punto di vista messo in campo da questa operazione, che è scontro di chimica e molecole, fusione e dispersione, appropriazione indebita e disobbediente. Perciò anche un Moreni lacunoso, parziale, non esaustivo antologicamente (anche se il numero di dipinti in mostra è considerevole), forse meno battuto, certamente vitale, dirompente e sfolgorante, ancora capace di stupire, colpire e ammaliare, di rilanciare domande, anche in questa occasione di confronto e attrito fertile con i dipinti e le sculture di Samorì.

Moreni e Samorì è un incantamento, un rapimento a potenza, una doppia tensione che schiude pieghe dello spazio e del tempo in cui viaggiare e sperdersi, qualcosa di pericolosamente ambiguo che sta tra un tentativo disperato di restituzione e un'immagine ferita a morte. Ovvero, qui almeno, e sempre in questi dipinti, vita.

Di Mattia Moreni a Cotignola già si è detto, ma non di una sua mostra, a cura di Aldo Savini, fatta nel 1991 a Palazzo Sforza a partire da un'articolata indagine su quella sorta di cenacolo e cuore pulsante per la Romagna ravennate che fu la casa e la figura eccentrica di Luigi Varoli; da questa mostra, anche idealmente, si intende qui ripartire offrendo non solo un approfondimento sui due artisti presi in esame, ma anche tracciando e aprendo possibili e nuovi sentieri nel fitto del bosco, nella lussureggiante e buia e sensuale foresta della pittura.

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