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Cronaca

Riceve fondi pubblici per rinnovare la struttura, ma non esegue i lavori: sequestrati 600mila euro ad un imprenditore

Secondo quanto emerso dalle indagini si tratterebbe di un profitto riconducibile al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato

Nell’ambito dell’operazione Free Bolt, la Guardia di finanza di Rimini ha eseguito un sequestro preventivo di 600 mila euro nei confronti di un noto imprenditore riminese operante nel settore turistico-alberghiero. Secondo quanto emerso dalle indagini si tratterebbe di un profitto riconducibile al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato.

La società, con sede a Rimini, è finita sotto la lente di ingrandimento dei finanzieri in quanto il finanziamento garantito doveva essere destinato alla realizzazione di fabbricati ed opere murarie e acquisto di macchinari, impianti ed attrezzature, entro 9 mesi dall’erogazione. Dalle indagini sarebbe invece emerso che tali interventi non risultano mai essere stati effettuati e pertanto la società, che non risulterebbe intestataria della proprietà o di contratti di locazione di alcun immobile, non avrebbe correttamente impiegato le somme ricevute.

L’attività scaturisce dagli accertamenti finalizzati alla ricerca di soggetti che percepiscono finanziamenti garantiti dallo Stato e gestiti da Mediocredito Centrale. In particolare i militari del nucleo di Polizia economico finanziaria hanno elaborato un sofisticato metodo investigativo avvalendosi dell’informatica operativa per poter selezionare all’interno della platea di oltre 14 mila percettori, le situazioni a più elevato rischio e meritevoli di approfondimento, così da poter concentrare l’attenzione operativa su di essi anziché procedere con controlli a campione.

In questo caso, tra i requisiti per l’ottenimento del finanziamento era inoltre necessaria la presentazione di un progetto di investimento la cui copertura era al 20% di risorse proprie e 80% dal fondo garantito. Dal lavoro degli uomini della Guardia di finanza del nucleo di Polizia economico-finanziaria sarebbe emerso che la società avrebbe ricevuto le somme necessarie a coprire la quota di sua spettanza, circa 200 mila euro, da due società che ne detenevano la proprietà ma riconducibili allo stesso alveo familiare, salvo poi restituirle ad una delle due dopo l’ottenimento del finanziamento, a pagamento della vendita di mobilio che, dalla documentazione acquisita dagli investigatori, non risulterebbe mai essere avvenuta.

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