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Cronaca

Si è spento Benedetto Benedetti, grande scrittore e giornalista romagnolo

Originario di Perticara, Liceo a Rimini, compagno di scuola Sergio Zavoli, poi dopo le tristi vicende della guerra, a Roma redazione dell'Unità allora in Via Quattro Novembre. Premio Frontino 2008 per la Narrativa, con il romanzo La signorina Notte

Si è spento all'età di 89 anni lo scrittore e giornalista Benedetto Benedetti, Premio Frontino 2008 per la Narrativa, con il romanzo La signorina Notte. Ufficialmente si tratta dell’opera prima di Benedetti, anche se due capitoli erano già apparsi come racconti autonomi per un libretto dell’editore riminese Raffaelli, dal geniale titolo L’invornita. Benedetto Benedetti era nato a Perticara nel 1924. E’ stato giornalista, critico musicale, regista, è storico, scrittore ed esteta, ha vissuto nella Roma dei vitelloni, ha conosciuto Fellini, Flaiano, Rossellini, e tanti tanti altri personaggi. Ha vissuto in ricchezza, lusso e povertà. Per le strade di Rimini camminava con un cappello in testa, è alto e diritto e parla sempre forbito. 

Nella sua autobiografia Benedetti scriveva "Sono nato in un paese di lanterne magiche, Perticara. Una miniera di zolfo, ora chiusa, comandava il metronomo dividendo le giornate in tre per otto ventiquattro, i turni della miniera. In molte case di minatori, la luce elettrica non si spegneva mai perché la miniera aveva un forfait con la Idroelettrica dell’Alto Savio: il bambino non lo sapeva, voleva dire essere speciali. Verso i quattro anni mi misero a dormire da solo, per le precoci pretese verso una zia tornita e giovanissima: essendo ancora tutto in erba, per intromettermi, attorcigliavo, dormendo, un capello della bruna compagna di letto, all’indice e poi lo strappavo. Tra garbo e sgarbo, lei per dormire in pace, allocò il pretendente nella camera prospiciente alla strada. Buio e notte, le gelosie delle persiane captavano luci, le lampe accese dei minatori del turno di mezzo  la stanza diventava una camera oscura, sul soffitto saette svelte lampanti biancoazzurre, da un angolo all’altro: rintrono di scarpe chiodate, chiacchiere e raschi tosse. Furono le mie prime farfalle: immagini dell’inafferrabile accolte con favore d’avventura nel nido caldo tra veglia e sonno, nostalgia di cose lontane. La scoperta della radio e della propaganda aveva dotato di forti altoparlanti la locale sezione del Fascio. Da quei megafoni io ragazzo intesi per la prima volta il preludio al terzo atto del Lohengrin di Wagner e corsi da Torsani a Rimini a comprare il disco, senza conoscerne il titolo, cantando la parte captata a memoria al barbetta disponibile e ammirato. Così iniziò lo studio della musica e la lunga milizia di critico musicale. Liceo a Rimini, compagno di scuola Sergio Zavoli, poi dopo le tristi vicende della guerra, a Roma redazione dell’Unità allora in Via Quattro Novembre. Non presi mai la tessera del partito, e nessuno me la chiese. Capo servizio d’infallibile intuito, Alfredo Reichlin, titolista nato: “Toghe sdrucite” commentai in titolo un articolo per una inaugurazione d’anno giudiziario: direttore il cordiale Ingrao, redattore capo un gran signore, riflessivo e triste, Maurizio Ferrara, padre dell’attuale direttore del Foglio. La scuola dell’Unità ebbe tre cardini: il discorso di Togliatti per la morte di Stalin, il caso Don Camillo e il processo Pisciotta a Viterbo. Inviato a Palermo per documentarsi sul bandito Giuliano, ebbi la sorpresa: le fotografie di Pasquale Sciortino, il misterioso cognato del bandito Giuliano, date per introvabili, potevano essere comprate seguendo il canale giusto, con una certa facilità. Le coperte vie conducevano a una Sicilia che voleva dire Trinacria. Trasmisi un servizio riferendo i versi di un cantinpiazza che ripeteva esattamente le tesi del Partito Comunista sulla strage di contadini compiuta da Giuliano a Portella delle Ginestre e mi fu poi riferito che Reichlin smontò la prima pagina del giornale per pubblicarlo. Non so ancora oggi se è vero, ma quando me lo dissero, ne ebbe piacere. Il caso Chiaretti-Pajetta fu lo scontro fra radical-chic e un grande industriale della politica. La cosca intellettuale romana era stata unanime a rifiutare di immischiarsi nel film tratto dal romanzo Don Camillo di Guareschi, l’inventore dal “Candido” dei trinariciuti comunisti: la regia fu affidata a Duvivier, grandissimo professionista: un film sulla Legione Straniera spagnola (La bandera, 1935) e uno sul mondo dei gangster (Il bandito della Casbah, 1936; titolo originale Pépé le Moko), film capitale per Gabin. Si formò la coppia storica Gino Cervi-Fernandel. Successo smisurato, ma l’ingualcibile Chiaretti che era anche critico cinematografico dell’Unità intitolò la sua recensione “Italia Offesa”: Duvivier infatti, nazionalità e carriera francesi. Pochi giorni dopo, stessa collocazione, stesso rilievo, in apertura di terza pagina, Pajetta intervenne iniziando: «a me invece il film è piaciuto». Per il lupo di mare politico, il film traghettava il partito dal triangolo della morte ed altre facezie, alle facezie Cervi-Fernandel. Morto Stalin, Togliatti iniziò la sua commemorazione in Parlamento, con le parole «sono percosso, attonito». Scandalizzato, il poco perspicace, andò per lumi da un vecchio militante che aveva avuto in Russia qualche carezza stalinista: dopo i doverosi insulti del caso, egli lo esortò a meditare sull’interrogativo del cinque Maggio di Manzoni: «fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza». Era cominciata la destalinizzazione. Sceneggiature, critica musicale, poi il film Sai cosa faceva Stalin alle donne? definito da Aggeo Savioli sull’Unità, «nefanda buffonata». Mi commosse la citazione dal comune altrove frequentato liceo, infandum regina iubes renovare dolorem: regina, comandi rinnovare un dolore a cui non vorrei dare parole. Poi, si sa come andarono le cose. Del film fui co-sceneggiatore e protagonista insieme ad Helmut Berger, ma non mi piacque molto. Tuttavia sono sempre riconoscente a Liverani che lo diresse".

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