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Fogheraccia: origine del falò che "incendia" la notte di San Giuseppe

La "fugaràza" è un rito popolare tipico del folclore romagnolo che si tiene ogni anno nella serata del 18 marzo. Consiste nell'accensione di grandi falò in cui bruciare, secondo l'usanza più recente, vecchi mobili, scarti di potature e altro materiale legnoso.

La fogheraccia o focheraccia o focarina (fugaràza nel riminese, fugaréna nel resto di Romagna) è un rito popolare tipico del folclore romagnolo che si tiene ogni anno nella serata del 18 marzo.

Origini

La fogheraccia è, uno dei riti folclorici più antichi e radicati in Romagna, attraverso il quale celebrare dalla costa sino ai territori dell’entroterra San Giuseppe. Le cebrazioni dedicate al Santo, consistono nell'accensione di grandi falò in cui bruciare, secondo l'usanza più recente, vecchi mobili, scarti di potature e altro materiale legnoso.

Il rito del “fuoco purificatore” è una delle tradizioni ancestrali più diffuse nell’antropologia culturale. Come osserva Frazer (1973), "…il fuoco è considerato promotore della crescita dei raccolti e del benessere dell’uomo e delle bestie, o positivamente stimolandoli, o negativamente stornando i pericoli o le calamità che lo minacciano da cause come tuoni e lampi, incendi, muffa, insetti, sterilità, malattia, e non minore delle altre, stregoneria…".

Nello specifico, i falò di marzo accesi nelle campagne romagnole avevano, almeno in origine, un intento propiziatorio, messo in atto significativamente proprio all’inizio del mese di marzo, che segna la fine dell’inverno e l’arrivo della buona stagione, la cui luce e calore i falò intendono richiamare.
In origine, essi sancivano probabilmente anche la fine dell’anno nuovo e bruciavano così il tempo passato come purificazione in vista del tempo futuro: infatti nell’antica Roma (fino al 153 a.C.) e presso altre popolazioni antiche l’anno cominciava il 1° marzo. Sicuramente, quindi, la “fogheraccia” è riconducibile all’equinozio e al trapasso definitivo dall’inverno alla primavera – quindi alla “rinascita” biologica, rafforzata dal rogo delle spuntature e dall’eliminazione fisica delle piante rinsecchite e dei rifiuti organici rurali della stagione precedente. Non solo rinascita, quindi, ma anche auspicio di prosperità al momento dell’ingresso in una nuova stagione.

In alcune zone dell’entroterra romagnolo, il simbolismo allegorico del fuoco s’interseca con il rito della “Segavecchia” (o, semplicemente, della “Vecchia”), tenuto il giovedì di mezza quaresima, durante il quale un fantoccio con le sembianze di una vecchia, ripieno di frutta secca, confetti o addirittura monete, viene trainato su un carro mascherato tra suoni di trombe, battaglie con la frutta e grida, per essere poi squarciato da appositi e selezionati “segatori” per la gioia dei giovani in attesa dei doni contenuti e, infine, arso in piazza. In questo caso possiamo intravedere sì riverberi tardivi del precedente Carnevale (le maschere, i suoni, l’abbondanza) ma, nell’uccisione della Vecchia, certamente un rito propiziatorio e una metafora della terra, gravida di frutti e benessere primaverili dopo lo sterile inverno.

Tale rito allegorico si interseca ai ritmi di una comunità agro-pastorale che alla fine dell’inverno svuota le stalle e al contempo stesso è favorito dalla disponibilità delle frasche derivanti dalla potatura degli alberi, in particolare olivi, che avviene nei giorni della festa.

Assieme alla funzione propiziatoria, l’uso di bruciare nella pira l’effige di vecchie e streghe poteva rappresentare l’allontanamento delle anime dei morti ritardatari e auspicare un veloce ritorno alla normalità.

Modalità

Ne esiste una versione "di campagna" e una "di mare": mentre la prima trae il suo materiale dalle stoppe, potature e scarti del raccolto, la seconda anche dalle grandi quantità di legna portato a mare dai fiumi con le piogge autunnali e invernali. Al materiale amassato si aggiungono vecchi mobili e altro materiale legnoso, ottenendo una catasta per poi incendiarla poco dopo il tramonto.
Tale pratica era molto diffusa in passato; in sul litorale e nei paesi ogni quartiere provvedeva a costruire la propria pira, anche piuttosto grossa, mentre le campagne si punteggiavano dei piccoli fuochi dei contadini.

La fogheraccia era un momento di aggregazione e divertimento e spesso era accompagnata da musiche tradizionali, zuppa, ciambella e vino; occasionalmente, a spettacoli pirotecnici e grigliate.

La fogheraccia figura nelle prime scene di Amarcord di Federico Fellini, dove si vede bruciare in cima alla pira anche la vecia, o sega vecchia, il fantoccio rappresentante l'inverno.

Talvolta la fogheraccia era anticipata in campagna, negli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre di marzo dalla Lôm a mèrz (luce a marzo) con l'accensione di grandi fuochi "sopra vento" (al fugarèn) per propiziarsi quel mese, caratterizzato da un tempo molto incerto. Le gemme precocemente spuntate nel terreno, infatti, rischiano di essere uccise dal gelo.

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