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VIDEO | L'anno di Azzurrina, nel castello di Montebello si aspetta l'apparizione fantasma

Torna a rivivere l'antica leggenda della bambina albina sparita tra le mura della rocca, il ricercatore Leo Farinelli traccia nuova ipotesi sulla scomparsa della piccola

La Romagna è una terra di misteri e leggende che affondano le loro radici in un passato ricco di storia e che traggono la loro energia da tantissimi luoghi suggestivi, in particolare manieri e castelli, che affollano il suo entroterra. Uno dei racconti più famosi, e che ognuno di noi ha sentito raccontare più volte e in varie versioni, è quello legato ad Azzurrina di Montebello: la piccola bambina scomparsa tra le stanze del castello di proprietà dei conti Guidi di Bagno. Protagonista di un film, mai uscito nelle sale a distanza di diversi anni dalle riprese, la leggenda vuole che, secondo la tradizione, il fantasma di Azzurrina torni a farsi sentire tra i corridoi che si affacciano sulla Valmarecchia la notte del solstizio d’estate, il 21 giugno, di ogni anno lustro, ossia divisibile per 5. 

Ed ecco che, per questo 2020, torna a farsi vivo il racconto di Guendalina, vero nome della piccola, ma con qualche particolare in più frutto di un lungo lavoro portato avanti dal forlivese Leo Farinelli che ha dedicato anni a scoprire cosa si cela dietro il racconto tramandatoci nei secoli. Autore di libri e di trasmissioni che riguardano il paranormale e, in particolare, proprio il fantasma che abita la rocca di Montebello Farinelli ricostruisce così la vicenda che ruota attorno a una delle storie più misteriose e note dell'entroterra.

Scrive Leo Farinelli, per ricordare questo importante appuntamento:
Quattro anni dopo la primogenita Alissia, fosti tu Guendalina Della Faggiola. Il nome che t’accostarono la madre Costanza e il padre Uguccione, condottiero come il suo avo più leggendario, fu preso da ricordi di nomi nordici. Forse da una leggenda celtica che parla di maghi e regine, e una di queste aveva le ciglia bianche come le tue e ti chiamarono Guendalina come lei. Quando nascesti, gettasti sgomento fra i presenti e poi fra coloro che ti resero omaggio. Eri diversa da quanto si aspettavano, e da quanto era la regola del sangue che ti aveva dato la vita.  Un sangue che dava un colorito pesca alla pelle. Tu avevi i capelli come la seta appena filata dal Baco, bianchi e trasparenti; avevi il cielo negli occhi, e la pelle così trasparente che sembravi di vetro.  Eri stupenda e stupefacente da ingarbugliare i pensieri dentro alla testa e le espressioni sui volti di chi ti osservava. Guendalina eri una meraviglia. Lo eri davvero, tanto che se non fosse stato per quello incauto biancore che ti avvolgeva, saresti stata subito promessa sposa.

Purtroppo eri albina, e con le leggi promulgate col crocifisso in mano, sarebbe stato meglio non fossi mai nata.   La mano che scrisse della tua venuta, fu vaga nel lasciarti sulla cartapecora, e tremò nel vergare il tuo nome, perché timorosa di aver già fatto sacrilegio nel nominarti.  Fosti subito tenuta nascosta e riparata dagli occhi indagatori. Allo stesso tempo fosti amata ma anche temuta per lo scompiglio che il tuo arrivo aveva creato nei nomi dei tuoi casati, dentro al castello, e fra le pieghe del manto rosso del Malatesta seduto accanto alla tomba dell’Apostolo Pietro. È sempre la leggenda a dirci che quanti ti amavano vollero nasconderti dal rogo che la Chiesa comandava per chi nasceva albino. Chi lo era, veniva riconosciuto figlio del Diavolo e quindi rimandato all’inferno passando dalle fiamme. Chi ti amava ti fece prigioniera dentro al castello, lontana dall’amore e dagli sguardi altrui, lontana da chi ti avrebbe additato con terrore.

Fin da piccola non potevi sapere di quanto aleggiava sulla tua esistenza, ma poi fosti informata, e trascorresti tempi interminabili tra le mura del castello e le risate dei soldati, ad ascoltare parole scurrili e canti di ubriachi. Vagavi nei racconti di battaglie e terre fantastiche. Vivevi nascosta alla vista di chi non fosse un fedele servitore del casato. Fedele sì, pena la sua testa. Grandicella, amavi giocare con la palla di pezza e cuoio, e lo facevi sempre sotto gli occhi vigili delle tue guardie personali, due ombre armate e discrete che si chiamavano Domenico e Ruggero. Da tempo ti tingevano di blu i lunghi capelli per nascondere il loro vero colore, e sovente ti spingevano in testa un cappellino di feltro nero per nascondere la candida colpa. Era il mese di giugno dell’anno 1383, avevi circa 8 anni, e la leggenda che ti adorna come un manto, abbellita da chi ti ama e invece oscurata da chi ti usa, ci racconta che appena dopo il tramonto accadde un evento strano, singolare e indimenticabile. Come spesso facevi, eri intenta a giocare con la palla di stracci e cuoio nel corridoio ove ti tenevano protetta. Al suo limite, da una parte vi erano la finestra che guarda verso il parco, e dall’altra vi era la buca che scendeva nelle viscere del maniero. Alti gradini di pietra che portavano giù, nel buio dov’era scavata la grande stanza del freddo per conservare le vivande e per la raccolta dell’acqua. Laggiù in quel ventre il freddo era naturale e faceva rabbrividire, e il buio che aggrediva incuteva batticuore. Avvenne che i tuoi due custodi, intenti a scherzare sul temporale che minacciava il castello, non si accorsero di quanto ti stava accadendo; ti era sfuggita la palla di mano, e rotolata veloce dentro alla buca. Non videro dove ti eri diretta e stavi facendo dei passi proibiti anche per loro: stavi scendendo i ripidi gradini per andare a raccogliere la palla nella gola del buio.

Andasti giù, ad ogni gradino sceso abbandonasti la luce, e con gli occhi e l’aiuto delle mani cercasti di ritrovare il luogo. 
Giù, nel buio freddo mentre il violento temporale investiva il monte e il castello, imperversando sulle due torri e i camminamenti, vorticando nelle stanze del maniero che non aveva gli scuri accostati a proteggere gli arredi. Tu non temevi la discesa, eri sicura del luogo che altre volte avevi segretamente esplorato, ridevi al brontolio affievolito del tuono che ti raggiungeva nel sotterraneo. Giù con allegria a cercare, pochi attimi in equilibrio sul buio e sull’esiguo passaggio, poi saresti risalita con l'amata palla. 'Ma dove sei andata, non puoi essere lontana dagli scalini, c’è tutto il muro di sassi grossi attorno?' Forse su questo pensiero tu mancasti al mondo. Tu e la palla non foste mai più trovate. Forse fu una mano a spingerti nell’acqua gelida per poi farti sparire? Forse fu una punta di lancia a trapassarti, per nascondere il tuo corpo fin dentro alla notte calata sul bosco? Forse fosti rapita per farti dissolvere dietro a un muro di sassi?

A nulla valsero gli accorati e lunghi richiami, le vane e affannose ricerche in ogni antro del castello, nel bosco e nei dirupi attorno. Gli armigeri scorticarono tutta la rupe Scorticata a cercarti in ogni anfratto. I cavalieri percorsero le terre per giorni a cercarti, chiedendo ovunque e a donando denaro a chi avrebbe potuto dare tue notizie. Tornarono sfatti, delusi e coi cavalli sfiniti, con le bocche schiumanti e le zampe ferite.   Il dolore dei castellani, dei borghigiani e dei soldati si poteva incontrare nell’aria. Lo sconforto dei giorni terribili trascorsi col tuo nome nella mente durò a lungo e la speranza di rivederti apparire abbandonava solo chi moriva. Attraverso i secoli sono divenute infinite le voci che ti raccontano, le mani che ti descrivono e che ti rinnovano nel mese di giugno di ogni lustro.    Sembra che tu abbia lanciato un pensiero all’universo mentre svanivi là nel buio della cisterna, sembra che la gente lo abbia recepito, e che aspetti quel giorno del solstizio d’estate dell’anno che termina con 5 oppure con zero. Si dice e ribadisce che in quella notte tu torni tra le mura del tuo castello e ridi felice, e ti fai vedere, sentire. Lanci gridolini e corri tra gli alberi del parco mentre spesso, dai quei lontani secoli, giunge all'appuntamento il temporale, sbiadite campane e sussurri che arrivano dall’infinito ti ricordano e t'accompagnano nella ricorrenza; che sia vera, presunta o solo leggendaria, è solo il nostro animo che incoraggia la risposta. E quella fa battere il cuore, e fa sussurrare il tuo nome che s’appoggia mieloso sulle labbra e sul sorriso di chi ti ama. Il tuo nome lo ripropone il vento e lo porta su e giù per la valle del Marecchia, e poi sui colli lontani e lo fa rimbalzare nei vecchi borghi medievali. Azzurrina, un nome che raccoglie il colore del cielo e forse è da lassù che sorridi ai nostri dubbi.

Guendalina, forse fu il frate che ritrovò i brandelli di cartapecora ove era descritta la tua storia, a farti sparire così? Forse annotò a suo modo e su carta quanto poté leggere o supporre su quei brandelli di pergamena? Posso supporre che lo fece da fervente praticante cattolico, servo di Dio e della Chiesa, falsificando date e avvenimenti. Li adattò in modo che i colpevoli per la tua scomparsa non fossero trascritti. A suo modo volle perdonarli?  Non si doveva sapere ch’eri divenuta inaccettabile al loro mondo? Guendalina, posso dubitare che quei nomi non dovevano apparire perché avrebbero messo nuova discordia fra i tuoi casati? Quelli che ti avevano allevato e che erano ancora in vita tre secoli dopo? Coloro che avevano giurato di amarti e che invece si erano disfatte di te facilmente,  com’era consuetudine allora? Guendalina, posso avere questi dubbi sulla tua scomparsa?

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