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“Portolotto”, la lingua dimenticata dei marinai riminesi

Branzino, poveracce e pidocchi i termini ancora vivi del dialetto di marinai, pescatori e di chi viveva e lavorava nel porto di Rimini. Riscopriamo il "portolotto"

Probabilmente non tutti sanno che ancora all’inizio di questo secolo, nel rione di Rimini che dava sul porto, Borgo Marina, i marinai parlavano un dialetto chiamato “Purtlòt” (Portolotto, cioè la lingua degli abitanti del porto). Era una lingua a sé, quasi incomprensibile per i romagnoli di terra.

Era, invece, compresa molto bene da tutti i marinai, dai pescatori e dalla gente che viveva in tutti i porti dell’Adriatico e su entrambe le sponde, perchè si trattava della “lingua franca” della marineria preso dal linguaggio veneto, e come nelle altre lingue franche dei marinai, la parlata prendeva parole in ogni approdo, creando un vero e proprio gergo a sè grazie a un mix di termini ebraici, greci, arabi, spagnoli, turchi, slavi e albanesi. 

il "portolotto", nel 1850, e anche dopo, era una lingua ufficiale, parlata correttamente, e quasi esclusivamente, da tutti gli abitanti del porto e dei borghi confinanti (il borgo di Marina e il borgo di San Giuliano). Questo era dovuta all'influenza dei secoli di dominio di Venezia che spiega facilmente l'esistenza e la persistenza di un'sola linguistica autonoma dentro la città di Rimini. Tanto che Quondamatteo e Bellosi dissero: "I marinai riminesi si intendevano meglio con quelli dell'isola di Veglia, nel Quarnero, che non con i contadini di San Vito, a due, tremila metri in linea d'aria".

Nel 1864 lo storico riminese Luigi Tonini scriveva che in città c’erano almeno 5 mila persone nel Borgo Marina e nel Borgo San Giuliano, tra pescatori, naviganti, calafati, facchini, commercianti e "industrianti" tutti con le loro famiglie, che parlavano correntemente la lingua portolotta. Dunque una parte importante della popolazione, dato che nel 1861 Rimini non raggiungeva i 28 mila abitanti.

Intorno al 1920 il "portolotto" si estinse del tutto in seguito alla fine della navigazione a vela sostituita da quella a motore. E insieme alla navigazione a vela scomparve anche tutta la millenaria cultura marinara.

Il "Portolotto" oggi

Di questa "lingua morta" sono rimaste minime tracce che ancora oggi compaiono nei termini quando si tratta di cose di mare. Per esempio, tutti i nomi dei pesci e i termini marinareschi dei dialetti romagnoli, riminese compreso, vengono direttamente dal Portolotto: per esempio, non si dice cozze ma “pidocchi” (bdocc, peòci in veneziano) non vongole ma “poveracce” (purazi, bevarasse in laguna); non gabbiani ma “cocali” (cuchèl, cocàl); e nemmeno spigola, ma branzino (branzèin; branzìn).

Ma, il più lungo reperto in "portolotto" si trova nella farsa in dialetto riminese "Nè vedva nè da maridè" (Nè vedova nè ragazza da marito), scritta da Ubaldo Valaperta e rappresentata nel novembre del 1867. Si tratta di una battuta che pronuncia Bartulein, il marinaio redivivo che, dopo lunghe peregrinazioni, torna dalla moglie Sabèta (Elisabetta) e dalla figlioletta che si concude così: "Da sto momento dago un bon dì al mare per star colla mi fantolina e la mi Sabèta" ("Da questo momento do l'addio al mare per restare con la mia bambina e con la mia Elisabetta").


Nel 1977 Gianni Quondamatteo ha pubblicato otto frasi in "portolotto", tutte molto brevi, riprese dalla tradizione orale: 

- "Porta e' lumèto" ("Porta la lanterna"), 

- "Prista nu pavlo" ("Prestami un paolo"), 

- "Aspèta che m'impiza la pipa" ("Aspetta che m'accenda la pipa"). 

Poche altre - quattro in tutto - si trovano disseminate nelle voluminose cronache manoscritte di Filippo Giangi.
 La prima è la supplica che, durante i moti del 1931, un vecchio pescatore rivolge alle nuove autorità: "Sior cavalier, ghe dimandèmo una grazia: non volèmo più pagar el pavolo che paga i barchèti ogni sitimana quando i va a pescar". Il senso è chiaro: si chiede di non pagare più la tassa settimanale di un paolo, moneta dello Stato Pontificio.


La seconda è il grido di rivolta dei pescatori affamati che, nel 1845, assaltano e saccheggiano due barche cariche di grano: "Fora, gente tuta, portèmo el gran in tera! Fora, fora, no lasèmo andar via la grazia de Dio!" ("Fuori tutti, gente, portiamo il grano in terra! Fuori, fuori, non lasciamoci scappare la grazia di Dio!").


Le ultime due frasi in "portolotto" sono tratte dalla vivace descrizione della "terza festa di Pasqua" del 1841, una tradizionale festa marinara, non priva di tratti originali e stravaganti, che si celebrava tutti gli anni il martedì dopo la Pasqua. Tra le varie e singolari usanze spicca quella di montare, quanti più possibile, in groppa a degli asini e di girare intorno alla chiesa di San Nicolò. Come si può ben immaginare, erano frequenti le cadute dei "disadatti e malpratici" cavallerizzi, con gran divertimento dei "molti astanti, anche cittadini".

Quando una comitiva di marinai noleggiava un asino, così si rivolgeva al vetturino: "Dèmelo longo, che semo in quatro; che semo in sie" ("Datamelo lungo, chè dobbiamo salirci in quattro; in sei").

Passando poi, a dorso di somaro, "avanti alle loro innamorate", i marinai lanciavano un richiamo galante: "Ciò, so mi che passe!" ("Ehi, sono io che sto passando!").


fonte: Comune di Rimini

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