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Cronaca

Gli inquirenti sbagliano a trascrivere un codice, imprenditrice riminese finisce ingiustamente a processo

Il legale della donna ha impugnato la sentenza riuscendo a dimostrare la clamorosa svista degli inquirenti facendo così assolvere la sua assistita

Per colpa di un errore, commesso dagli inquirenti nel corso di un'indagine per furto, un'imprenditrice riminese è stata ingiustamente condannata e solo grazie alla solerzia del proprio avvocato è riuscita a dimostrare la propria innocenza. La vicenda risale all'ottobre del 2019 quando, a una donna di Pistoia, venne rubato il cellulare con la vittima che si era presentata ai carabinieri toscani per sporgere denuncia. La macchina della Legge si era così messa in moto e i militari dell'Arma avevano iniziato l'indagine per cercare di recuperare lo smartphone e, tramite il codice Imei di 15 numeri che viene riportato su ogni telefonino per identificarlo, le divise erano arrivate alla riminese 40enne "colpevole" di possedere un cellulare dello stesso modello e marca di quello sparito. Il numero di serie dello Huawei, tra l'altro, risultava lo stesso o quasi. L'imprenditrice era letteralmente caduta dalle nuvole quando si era ritrovata indagata per ricettazione e a nulla erano valse proteste e copia della fattura di acquisto del telefonino comperato su Amazon tramite la sua carta di credito.

Nonostante questo, i carabinieri avevano sequestrato lo Huawei per restituirlo a quella che credevano la legittima proprietaria mentre, la riminese, si era ritrovata con un decreto penale di condanna tra le mani. L'imprenditrice non ha quindi potuto far altro che affidarsi all'avvocato Gianluca Brugioni il quale, dopo 3 anni, è riuscito a dimostrare l'innocenza della sua assistita. Davanti al giudice Monocratico del Tribunale di Rimini, infatti, ha fatto emergere il clamoroso errore degli inquirenti: il codice Imei, infatti, corrispondeva solo per 14 numeri su 15. Evidentemente il ragionamento fatto dagli investigatori, è stata la tesi difensiva, è stato quello che l'ultimo numero della serie non era fondamentale ai fini dell'identificazione. Oltre a questo, in aula sono state presentate le regolari fatture d'acquisto dello smartphone. E' così arrivata la sentenza di assoluzione, perchè il fatto non sussiste, ma non il risarcimento per il telefonino finito nelle mani della derubata e pieno di dati personali anche quelli sensibili della sua azienda, andati irrimediabilmente smarriti.

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